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“Gli agricoltori ci forniscono cibo avvelenato!”
15.01.2019

“Gli agricoltori ci forniscono cibo avvelenato!”

“Gli agricoltori ci forniscono cibo avvelenato!”


di ALBERTO GUIDORZI


 

Penso purtroppo che non ci sia nessuna esagerazione nel titolo, infatti, l’opinione pubblica è convinta di questo e i media fanno di tutto perché la convinzione si radichi sempre più; mediaticamente paga di più spargere paure e soprattutto titolare fuori dal contesto effettivo dei contenuti degli articoli riportati. Per di più, poi vi è passività e pochissima reazione da parte degli imputati, appunto gli agricoltori. Eppure nei loro archi di frecce ne avrebbero parecchie per controbattere. Ecco, il presente articolo vorrebbe far in modo che chi è vicino al mondo agricolo se ne rendesse conto e usasse queste argomentazioni come strumenti di contropropaganda.
La difesa delle piante nell’antichità
I Romani avevano il dio Robigus a cui rivolgersi quando il grano era colpito dalle ruggini. Sulla stessa falsariga è l’episodio datato 1514 in cui dei contadini si sono rivolti alle autorità ecclesiastiche perché dei vermi avevano invaso i loro campi. Il dignitario interpellato se ne usci con questo interdetto: “facendo seguito alla petizione noi ammoniamo queste larve di ritirarsi entro sei giorni, in difetto noi li dichiariamo maledetti e scomunicati”. Non dobbiamo, però, meravigliarci più di tanto perché le lustrazioni dei campi del tempo dei romani sono passate al cattolicesimo e le Rogazioni ne sono un esempio, infatti, il sacerdote recitava:  “A fulgure et tempestate, A peste, fame et bello, ecc” e i fedeli rispondevano “Libera nos Domine”.  Nel 1650 a Rouen in Francia si ha la prima notizia che dall’osservazione del ciclo della ruggine nera del grano i contadini seppero individuare l’influenza del Berberis vulgaris o Crespino comune nel diffondere la ruggine e quindi provvidero ad estirparlo in prossimità dei campi di grano per prevenire gli attacchi della crittogama. Solo due secoli dopo si scoprì che la Puccinia graminis   o ruggine del grano aveva proprio bisogno del crespino come ospite intermedio per compiere il ciclo e quindi l’eradicazione della pianta non permetteva che si compisse il ciclo completo e che si formasse maggiore inoculo infettante il frumento. Qualche anno prima si ha notizia che Parkinson aveva consigliato di trattare il cancro delle piante arboree con dell’urina e 50 anni dopo La Quintinie aveva scoperto l’attività insetticida delle foglie di tabacco macerate. Nel 1756 la Gazette d’Agriculture francese fornisce una ricetta per combattere la calandra del grano che infestava i granai e le cui larve svuotavano i chicchi di grano. Dato che il grano rimaneva nei granai da un anno all’altro e che vi potevano essere da 3 a  6 generazioni dell’insetto parassita, i danni non erano indifferenti. La ricetta era questa: “mettere in un paiolo delle foglie di persicaria, del sale marino e dell’aglio e riempirlo d’acqua e farlo bollire. Con l’acqua di bollitura bagnerete in superficie la massa del frumento del granaio”. Parmentier invece consigliò di disinfestare l’Hotel des Invalides dalle pulci con la bagnatura delle pareti delle stanze con un infuso di coclearia, rafano, erba pepe. Il tutto riportato ad oggi ci ricorda  da vicino un protocollo di agricoltura biologica, vi è però solo da dire che se questi infusi di erbe sono stati dei palliativi e non hanno risolto i problemi degli insetti nei granai e delle pulci nelle case d’abitazione per secoli, diventa ridicolo resuscitarli per risolvere gli attacchi parassitari di oggi, che tra l’altro sono più gravi. Rimane da citare la raccolta manuale degli insetti parassiti che orde di donne e bambini staccavano dalle piante coltivate per tentare di preservarle ( fu un modo di difendere le coltivazioni di patate da un insetto pervenutoci dall’America: la dorifora). Prendendo in considerazione la vite che produceva la seconda fonte di energia alimentare assieme al pane nei secoli scorsi possiamo notare che fu in considerazione dei parassiti riscontrati su questa pianta e solo in piccolissima parte autoctoni (tignola nel 1825, Oidio nel 1845, fillossera nel 1863, peronospora nel 1878, Blak Rot o marciume nero nel 1885) che iniziò la fitofarmacia in agricoltura. Ma solo nella prima metà del secolo scorso si ebbe una disponibilità maggiore di sostanze con effetto fitofarmaceutico più efficace, Tuttavia si era ancorati al mondo vegetale (piretro, nicotina, rotenone, oli vegetali ) o del mondo minerale o inorganico (oli minerali, rame, poltiglie solfocalciche o sali arsenicali). I veri pilastri però erano in realtà due: lo zolfo ed i sali di rame. Essi combattevano le malattie importate dal Nuovo Mondo attraverso del materiale vegetale viticolo. La prima fu l’oidio e in questo caso il rimedio fu presto trovato, appunto polverizzando dello zolfo, per quanto riguarda la peronospora la cosa fu più lenta e tra l’altro fu una scoperta casuale. I viticoltori francesi avevano messo in atto, come pratica per non farsi rubare l’uva ai bordi delle vigne, delle irrorazioni con prodotti rameici in modo da conferire un colore diverso al fogliame e diffondendo anche la voce che si trattava di un veleno potente. Il botanico Millardet e il chimico Gayon osservarono che le viti così trattate erano meno attaccate dalla peronospora e quindi dopo numerosi prove in laboratorio e nei campi misero a punto nel sud-ovest della Francia, con città principale Bordeaux, la famosa “Poltiglia bordolese” a base di solfato di rame da stemperarsi in acqua assieme a della calce. Dal 1886 la peronospora nella vita fu messa sotto controllo, com’era stato per l’oidio. Addirittura nel 1896 il solfato di rame divenne un erbicida per la sua fitotossicità (cosa che l’agricoltura biologica ha dimenticato). E giusto anche a questo punto che si sfati il concetto che una volta non vi erano residui sui prodotti alimentari si pensi che nel 1880 per tre trattamenti preconizzati si usavano dai 120 ai 150 kg/anno di zolfo ordinario triturato, che scendevano a 80/90 kg se si usava “fior di zolfo”. Se parliamo di poltiglia bordolese la si usava in ragione di 10/20 kg/ha di solfato di rame e non erano infrequenti gli anni (che ancora esistono oggi) nei quali si dovevano eseguire 15 e più trattamenti, ossia si usavano dai 100 ai 300 kg anno di solfato di rame. Ricordo che l’uva non si è mai lavata prima della pigiatura e quindi il rame andava a finire nel vino e si beveva. Il solfato di rame come erbicida dei cereali si usava in ragione di 50/100 kg, ma per il suo elevato costo fu ben presto sostituito dall’acido solforico, che non era un elisir di lunga vita a proposito che una volta non si usavano prodotti di sintesi o non tossici. Nel diserbo si era molto più indietro in quanto per molto tempo solo l’acido solforico ed il sale marino, che ricordo avere una tossicità acuta maggiore del gliphosate, furono a disposizione. Tuttavia i risultati erano quasi sempre incompleti ed i prodotti rapportati alle produzioni avevano spesso costi proibitivi. Da considerare che la tossicità dei fitofarmaci di allora rispetto a quelli di oggi, sui quali ci si fa terrorizzare senza una ragione obiettiva, era enormemente maggiore (arsenico e nicotina in particolare). È utile ancora ricordare che tutti i prodotti salvo i più tossici, che guarda caso erano i più efficaci, sono gli stessi in uso oggi o lo sono stati fino a poco tempo fa, in agricoltura biologica. Dunque l’additare oggi l’agricoltura biologica come la forma di agricoltura del futuro è una panzana. Essa è e resta l’agricoltura di un secolo fa che tante penurie di cibo causava in conseguenza delle non protezioni efficaci dei raccolti di fronte ad attacchi parassitari gravi. Certo l’agricoltore in qualità di imprenditore ha il diritto-dovere di produrre biologico se gli si paga di più il prodotto agricolo e riesce ad aumentare i sui guadagni.
                                                       


Difesa antiparassitaria dopo la seconda guerra mondiale
Questa fu l’agricoltura praticata fino alla fine degli anni ‘30 del secolo scorso, quando subentrò la seconda guerra mondiale le cose divennero più difficili perché le materie prime come rame, zolfo e arsenico furono razionate, come pure i concimi. Le produzioni calarono in quanto i terreni persero di fertilità e la difesa venne meno. Questo è lo scenario che si presenterebbe davanti a noi se si generalizzasse l’agricoltura biologica. All’uscita della guerra si ripresero le scoperte dell’ante guerra, tutte frutto della chimica organica, ma non ancora utilizzate in agricoltura. In fatto di sostituti del rame (con solo effetto preventivo e quindi da irrorare in continuazione quando questo viene dilavato) furono sviluppati i dithiocarbammati (scoperti negli anni ’30) che ci diedero il thiram nel 1945, lo zineb nel 1950, lo ziram 1960, e poi il maneb e il mancozeb. Quest’ultimo rispetto al rame ha caratteristiche ecoambientali e tossicologiche nettamente migliori, è però rifiutato solo per l’uso distorto di un aggettivo di moda, cioè “naturale”.
  in particolare per il DDT si sfruttò l’esperienza dell’uso fatto durante la seconda guerra mondiale per disinfestare ambienti e persone da pulci e pidocchi o ambienti paludosi per liberarli dalle zanzare e proteggere i soldati.  La classe degli insetticidi organoclorurati sostituirono gli arseniati enormemente più tossici e persistenti. I rappresentanti di questa classe sono: il DDT, il lindano, l’aldrin ed il dieldrin. Ecco, in fatto di insetticidi, qui vi è da chiarire che tra DDT e arseniato di piombo o solfato di nicotina ad esempio vi è un abisso in fatto di tossicità per l’uomo. Per l’uomo il DDT non è tossico (se si rivà alle dosi ed ai modi usati per disinfestare i corpi delle persone cariche di pulci e pidocchi durante la guerra, si ha la riprova della non tossicità del DDT) mentre l’arsenico, il piombo e la nicotina lo sono in misura enormemente più grande (il primo ed il terzo erano usati di preferenza dagli aspiranti suicidi).  A causa del loro bioaccumulo gli organoclorurati furono sostituiti dagli esteri fosforici (1940), che erano appunto meno persistenti nell’ambiente e poi dai carbammati (aldicarb, carbofuran ecc). Sempre a proposito della natura considerata buona, si fa notare che durante la fermentazione del mosto si forma “naturalmente” del carbammato di etile che è cancerogeno. Tutte queste categorie di prodotti fitofarmaceutici sono state permesse perché si è ricorsi alla chimica organica con conseguente sintesi di molecole nuove molto più efficaci e relativamente meno tossiche. La favola diffusa è invece che solo la sintesi chimica genera veleni, infatti, è ciò che viene rifiutato in agricoltura biologica, indipendentemente dal fatto che il solfato di rame  è un prodotto di sintesi e che lo zolfo deriva ormai quasi esclusivamente dalla desolforazione degli idrocarburi mediante reazioni chimiche, inoltre la tossicità del rotenone e del rame (per questo si aggiunge anche l’accumulo ambientale) hanno poco da invidiare ai molti di quelli sopraccitati.
Per obiettività a questo punto dobbiamo ammettere che cominciarono a verificarsi le derive dovute ad un uso scriteriato di queste nuove sostanze più efficaci. Erano strumenti molto validi, ma sono stati dati in mano ad operatori che non avevano la professionalità e le conoscenze per farne un uso corretto. L’uso preventivo dell’insetticida era diventata la norma rispetto all’uso curativo, solo che questo modo di operare portava ad immettere in ambiente quantità esagerate ed inutili di principio attivo. L’allarme fu dato da un libro di Rachel Carlson dal titolo “la primavera silenziosa” che denunciava l’effetto del DDT sulla fragilizzazione dei gusci di uccelli che vivevano di pesci: ecco la ragione del titolo che prefigura una primavera senza il canto degli uccelli. Prefigurazione comunque esagerata ma con un impatto devastante per l’agricoltura. In altri termini maturò il concetto di “catena trofica”, nel senso che gli uccelli non erano irrorati di DDT, ma lo erano le piante e il terreno, quindi per dilavamento il DDT finiva nelle acque e nel corpo dei pesci poi mangiati dagli uccelli. Si torna a ribadire che il DDT non è pericoloso per la sua tossicità, ma lo diviene per la sua persistenza nell’ambiente. Come sempre capita, se la denuncia si trasforma in allarme incontrollato da un estremo si va all’altro. È infatti quello che è capitato con la malaria. Il DDT era un ottimo controllore della zanzara anofele vettore del plasmodio della malaria, ma l’agire per istinto spesso fa buttare come si dice “il bambino con l’acqua calda”. Ad esempio in Sud America la zanzara Aedes Egypti portatrice della dengue, della febbre gialla ed ora della Zika, nel 1930 imperversava, nel 1970, dopo aver usato il DDT negli anni precedenti, era quasi del tutto sparita, mentre nel 2011, dopo 40 anni di non uso del DDT, è tornata ad imperversare. Si doveva solo usare con criterio il DDT ed in circostanze particolari, ad esempio dato che non è tossico per l’uomo sarebbe bastato irrorare i muri interni delle case delle zone malariche con soluzioni al 2% di DDT e le femmine di anofele (le sole portanti il plasmodio e che di giorno dimorano all’ombra delle case posizionandosi sui muri) sarebbero state uccise. La stessa cosa dicasi oggi per i neonicotinoidi, perché proibire anche la concia delle sementi quando le piante, da esse nate, all’epoca della fioritura non sarebbero più state tossiche? In questo modo non si obbliga l’agricoltore ad usare più prodotti e molto più pericolosi?
L’uso scriteriato tuttavia provocò anche altre conseguenze che sono riassumibili con l’acronimo “RPRR” (Resistenza, Persistenza, Risorgenza e Rottura della catena trofica) Dell’ultima e della seconda abbiamo già parlato, ma non della Resistenza che è spiegabile così: l’uso intenso e continuo di un prodotto biocida determina una pressione selettiva, nel senso che se vi è qualche raro individuo parassita mutato (attenzione! In natura la mutazione è casuale e non insorge a causa del principio attivo insetticida) che diveniva resistente al principio attivo biocida sarebbe sfuggito e si sarebbe riprodotto trasmettendo la sua caratteristica di resistenza acquisita.  Se invece si operasse una rotazione dei principi attivi biocidi o erbicidi il fenomeno suddetto non capiterebbe perché la mutazione dell’individuo riguarda resistenza a solo una o due molecole al massimo. È di questo periodo anche l’inizio dell’uso dei diserbanti ormonici (2-4D e MCPA) e successivamente delle atrazine.  I primi furono subito associati all’Agente Orange usato in modo massiccio nella guerra del Vietnam come defoliante, la cui sintesi, però, era poco curata ed il prodotto conteneva diossina, niente di strano se si tiene conto dell’uso esclusivamente bellico e non certo “salutistico”. Da qui ne nacque una diabolizzazione impropria perché i prodotti usati in agricoltura non contengono diossina in assoluto. Le atrazine invece avevano il difetto di inquinare le falde acquifere profonde, ma anche qui il fatto è stato aggravato dall’uso scriteriato in quantità. Con l’avvento delle piante OGM Roundup Ready l’atrazina sarebbe invece un ottimo complemento per ruotare i principi attivi ed evitare la proliferazione di malerbe resistenti. Non si eliminano gli strumenti a disposizione perché si usano male si impedisce agli operatori non professionali di svolgere l’attività!!!! A questo proposito assistiamo al paradosso che un’opinione pubblica disinformata ed orientata ad arte è convinta che si debba eliminare il gliphosate che rispetto ai diserbanti citati ha un impatto ecotossicologico enormemente migliorato.

Difesa delle piante coltivate tra fine XX sec. e inizio del XXI.
Di fronte all’azione continua di agribashing che l’ambientalismo radicale ed ideologico sta conducendo, le filiere agricole devono uscire dal guscio in cui si sono rinchiuse e reagire al fine di contrastare una propaganda che usa mezzi scorretti a soli fini di discredito e di strategia ideologica. Gli agricoltori devono rendere pubblico ed usare i media per mostrare che l’evoluzione della fitofarmacia in fatto di ecosostenibilità delle pratiche agricole è stata continua e positiva; non solo, ma dire in modo chiaro che le accuse che circolano su di loro sono molto datate e ormai senza fondamento. I prodotti di difesa che si usano in agricoltura oggi sono totalmente cambiati (tutti i fitofarmaci sopraccitati sono da tempo proibiti od in via di proibizione), solo l’agricoltura biologica non ha cambiato nulla e usa ancora prodotti per nulla anodini, anzi fa azione di lobby per mantenerli come nel caso del rame. I cambiamenti sopraggiunti in tema di uso di intrans sono: 1° la migliore protezione degli operatori agricoli, 2° la difesa della salute del consumatore, 3° la difesa dell’ambiente agricolo (api ed insetti pronubi in particolare) ed anche urbano, dove questo è compenetrato con il primo. L’ambiente urbano dei grossi agglomerati ha problemi ambientali ben più gravi di quelli imputati all’agricoltura, tra l’altro irrisolti e sempre più impattanti; risolvano quelli prima di dire che sono avvelenati dalle derrate agricole che danno loro del cibo sano, continuativamente e sempre a minor prezzo.  
La difesa dell’operatore agricolo è raggiunta dalla minore tossicità delle molecole fitofarmaceutiche distribuite e dall’attrezzatura messa a punto (dosi limitate al fabbisogno o addirittura uso di microdosi, pressurizzazione delle cabine dei trattori, uso dell’abbigliamento idoneo e controllo computerizzato delle macchine irroratrici per la distribuzione precisa anche di piccolissime dosi). Negli ultimi 30 anni le quantità in peso di fitofarmaci distribuiti sono calate del 30%.
La difesa del consumatore è data prima di tutto dalla grande diminuzione della tossicità per l’uomo ed i mammiferi in generale dei principi attivi di sostituzione, dalle disposizioni sempre più restrittive e dai controlli che vengono eseguiti sulle derrate da trasformare e sui prodotti di consumo diretto (frutta e verdura).
a)    A livello di fungicidi si sono preparate molecole ad effetto curativo e citotropiche che hanno efficacia totale e sono molto meno tossiche, come i triazoli, le strobilurine o i miscugli delle due.
b)    A livello di insetticidi si sono copiate delle sostanze naturali (usate in biologico come il piretro, ma senza che si conoscano gli effetti di tutte le piretrine ivi contenute) e si sono sintetizzate delle nuove molecole appartenenti alle classi dei piretroidi, dei neonicotinoidi o dei ryanoidi le cui tossicità, alle dosi efficaci contro il parassita, è pressoché nulla per l’uomo (le dosi sono diminuite di ben quattro volte a parità di efficacia). Sono queste le molecole nuove che hanno permesso di buttare al macero le precedenti. Sono anche le stesse che gli agricoltori dovrebbero eliminare secondo la pensata di una opinione pubblica ingannata da cattiva pubblicità, ma che i singoli componenti di questa usano senza nessun criterio di dosaggio per disfarsi degli insetti domestici e disinfestare gli animali da compagnia, evidentemente aventi più diritto di sopravvivere degli agricoltori! Nei diserbi selettivi si sono introdotte le sulfoniluree, cioè degli erbicidi attivi a bassissime dosi (qualche decine di grammi sono sufficienti) ed il “famigerato gliphosate” il diserbante totale più sicuro e sperimentato (in uso da 40 anni) da un punto di vista ecotossicologico. La sua riuscita e la sua esplosione negli usi ha generato una vera è propria congiura per accusarlo di “probabile cancerogenicità”, visto che altri pericoli erano inesistenti (esso ha una tossicità che è la metà del sale da cucina e dell’aceto, usati come diserbanti biologici). Si fa notare che il gliphosate è equiparato alle carni rosse e che il vino ha un componente sicuramente cancerogeno che è l’alcol. Qualcuno si sogna di proibire le carni rosse e le bevande alcoliche?
Occorre che si divulghi a destra ed a manca che nel 1975 prima di trovare una molecola fitofarmaceutica che superava i test imposti dalla legislazione pubblica occorreva passare al vaglio almeno 10.000 altre molecole, negli anni 80 questo dato si raddoppiò, fino ad arrivare agli anni 2000 quando le molecole da vagliare per trovarne una che superava i test tossico-ambientali imposti sono salite a 50.000. Oggi si è a livello di 160.000 molecole nuove da analizzare per trovarne una confacente. In termini economici si faccia dire ai media che per mettere in commercio una molecola, tra ricerca, sviluppo e registrazione occorre spendere più di 280 milioni di $. Qui si trova anche la spiegazione del perché: -1° della concentrazione dell’industria chimica, -2° della scelta sementiera delle stesse. La concentrazione e la multinazionalizzazione sono, infatti, un obbligo economico e non una scelta di dominio; per comprenderlo basti pensare che per arrivare a registrare un tratto genetico modificato per creare piante OGM occorrono solamente (sic!) 130 milioni di $ in luogo del 280 suddetti.
Si faccia sapere cosa prevedono le leggi a tutela del consumatore sul calcolo delle dosi di fitofarmaci da usare in agricoltura: Per ottenere una Autorizzazione di messa in Commercio di un fitofarmaco occorre che questo sia testato su degli animali di laboratorio e si determini la “dose giornaliera senza effetto o DGE”, cioè la dose massima assumibile in un giorno e che non mostra effetti tossici sui soggetti di laboratorio. Essa si esprime in mg/kg di peso corporeo/giorno. Su questa base esperti di tossicologia stabiliscono la “dose giornaliera” riferita al peso corporeo che l’uomo può assumere senza denotare effetti tossici – ossia la DGA.  La DGA è calcolata a partire dalla DGE dividendo questa per un fattore di sicurezza che va da un minimo di 100 e fino a 1000. In nessun caso i residui dei fitofarmaci presenti in un alimento devono superare la DGA. Successivamente è determinato “il tempo che deve trascorrere tra l’ultimo trattamento fitofarmaceutico e la raccolta del prodotto” che è variabile in funzione della specie coltivata. Infine viene fissato il “limite massimo dei residui” che è il limite massimo che una sostanza fitofarmaceutica può rivelarsi in una derrata alimentare. Il numero aumentato di residui, tante volte usato per suscitare “paure inconsulte” da parte dei media, non è sinonimo di maggiore uso di fitofarmaci come invece si vuol far credere al consumatore, ma solo un avvenuto perfezionamento delle analisi: da una parte per milione si è passati ad analisi capaci di rivelare una parte per miliardo e perfino individuare una molecola ma senza poterne quantificare la presenza. In passato di residui ve n’erano pochi perché non erano analizzabili in quantità e qualità. In agricoltura biologica capita la stessa cosa nel senso che dato che si usano  prodotti naturali (anche la cicuta e naturale!) si reputa non necessario individuarne i residui.
Difesa delle piante coltivate nel prosieguo del XXI secolo
Purtroppo partiamo da un’ignoranza abissale di cosa sia l’agricoltura moderna che nutre i cittadini con continuità e soprattutto a basso prezzo (cose che i nostri nonni si sognavano). Pertanto il dialogo diviene sempre meno possibile e di ciò ne sono colpevoli i media e giornalisti senza etica. È una sfida che gli agricoltori devono vincere, altrimenti ne va della loro sopravvivenza, a meno che non si attenda sulla riva del fiume il nemico, cioè il consumatore ideologizzato nel momento in cui questo si accorgerà che gli scaffali del suo supermercato non sempre sono riforniti con continuità o che la parte di bilancio famigliare per il nutrimento lo limita in altri acquisti essenziali e si chiederà il perché, accorgendosi, infine, che l’agricoltura non produce più a sufficienza. Certo quando arriverà questo momento l’agricoltura farà il bello e il cattivo tempo e sarà coccolata, ma quanti addetti avrà perso e quanti consumatori avranno peggiorato la loro dieta? La cosa grave è che la politica sembra non abbia previsto questo, anzi sembra proprio che non abbia fatto tesoro degli insegnamenti della storia: essa, infatti, ci dice che solo la fame può convincere qualcuno della giustezza del detto latino ”mors tua vita mea”.
Certi errori del passato non possono più essere fatti e non potremo mai affidarci ad un solo strumento di lotta ai parassiti e alle bizze del clima. La lotta dovrà essere “integrata” da una panoplia di strumenti da usarsi tramite messe in atto ragionate. Non si potrà scartare nessun ausilio per proteggere i raccolti sia esso di ordine agronomico, genetico, di biocontrollo, meccanico o fitofarmaceutico.
Le pratiche agronomiche passate al vaglio del tempo sono ancora validissime, se qualcuno se le è dimenticate vada subito a rispolverarle. Le rotazioni lunghe delle coltivazioni, la nutrizione eseguita in funzione degli asporti e dei soli bisogni della coltivazione da impiantare, la gestione delle lavorazioni del terreno in funzione di una diminuzione dell’emergenza delle malerbe, hanno ancora molto da dire.
Si devono amalgamare i metodi di miglioramento vegetale classici con tutti quelli che la biologia molecolare e cellulare ci mette a disposizione. In questo campo non si può scartare nulla a livello di metodo, il prodotto lo si deve sperimentare, successivamente valutare e, se le risposte saranno confacenti, passare all’applicazione. Una tecnica non è mai cattiva, è l’uso ed il risultato che ne consegue che può essere cattivo.
Il biocontrollo è da intensificare, ma siamo ai primordi e guarda caso sono proprio le famigerate multinazionali chimiche che hanno intensificato gli investimenti e le ricerche in questo campo. Attualmente nei paesi sviluppati si è a livello di un 5% di biocontrollo dei parassiti (ne godono di più le colture protette e confinate) e si stima di poter arrivare ad un 15% in futuro (a livello mondiale le prospettive sono di solo un 7%). Per ora qualcosa si è ottenuto a livello di macrorganismi (iperparassitismo), ma poco a livello di microrganismi, anche se sul settore si nutrono buone speranze. Anche a livello di mediatori chimici si sono già ottenuti risultati come per esempio nella confusione sessuale o di allormoni. Per questo, però, vale sempre il fatto che se si rifiuta la sintesi chimica questi prodotti non vedranno mai la luce, la stessa cosa vale se si rifiutano le biotecnologie cis e trans geniche al fine di far produrre alle piante queste sostanze ormonali, che tra l’altro producono già ma in quantità insufficienti ad una protezione adeguata agli scopi. Il comune cittadino deve sapere che il 99,99% dei pesticidi ingeriti con l’alimentazione sono di origine naturale (cioè sostanze che la pianta emette per contrastare i parassiti). In USA è stato calcolato che un americano ingerisce 1,5 g di pesticidi naturali al giorno, ossia 10.000 volte più dei residui dei pesticidi di sintesi distribuiti dall’uomo. È dunque probabile che tutta la frutta e verdura che compriamo al mercato contengano del pesticidi naturali cancerogeni per i topi da laboratorio e che quindi il livello di queste sostanze che noi ingeriamo tutti i gironi siano in concentrazioni migliaia di volte superiori ai pesticidi di sintesi.
 Da millenni la protezione delle piante coltivate è stata una delle massime preoccupazioni della collettività, basti pensare che una delle sette piaghe d’Egitto è causata da un insetto, la cavalletta. Nei tempi passati la preoccupazione era comune sia ai contadini che agli inurbati perché ambedue sapevano che il cibo si produceva nelle campagne, ora invece sembra che essa sia solo degli agricoltori, anzi i cittadini premono perché non sia fatta nessuna protezione…e abbiamo il coraggio di chiamare ciò una società evoluta. Si tratta invece di una discrasia sociale molto grave.
Non esiste uno strumento unico che risolva il problema di una fitopatia quando si presenta, si deve ricorrere ad una panoplia di strumenti e questa quanto più è ampia meglio si può raggiungere lo scopo nel modo più ecocompatibile possibile. Si rifletta sul fatto che a livello mondiale per quanto si faccia per ora non si va oltre il salvataggio del 70% dei raccolti potenziali. Perché invece come obiettivo non si parte dal 30% delle perdite e si opera per andare al 20% e poi tentare di avvicinarci al 10%? Tra l’altro con l’eliminazione delle perdite, maggiori nei paesi che hanno fame, si eviterebbero lunghi trasporti. Incredibile che gli uomini politici non lo comprendano. Anzi ministri e decisori pubblici proclamano di voler ridurre del 50% gli strumenti di difesa (noi italiani abbiamo avuto il Ministro Martina che addirittura si è prefisso il -100% di strumenti di difesa entro il 2025, eppure gli hanno dato il diploma di perito agrario), cioè di volere diminuire le produttività perorando la causa dell’agricoltura biologica (che rappresenta il 2% a livello europeo) e permettono di denigrare l’agricoltura convenzionale produttiva che costituisce il 98%, dimenticando che questa, se professionalmente condotta, accetta ben volentieri come strumenti complementari le pratiche agronomiche vantate dall’agricoltura biologica.